Mobbing: chi deve provarlo?

Il mobbing è quel complesso di comportamenti posti in essere da un superiore o un pari grado nei confronti del lavoratore che si concretizza in reiterati abusi, idonei a configurare una forma di terrorismo psicologico e si caratterizza per l’intenzione di arrecare danni al lavoratore.

Secondo la prevalente giurisprudenza sono quattro gli elementi costitutivi della fattispecie:

-       una serie di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o di altri dipendenti;

-         l’evento lesivo della salute psico-fisica del lavoratore;

-         il nesso eziologico tra tali condotte e il pregiudizio subito dalla vittima;

-         l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio dei vari comportamenti.

Con l’ordinanza n. 12364/2020 la Cassazione torna a ribadire che l’onere di provare tutti gli elementi di fatto della condotta vessatoria lamentata e il nesso causale tra questa e la lesione all’integrità psico-fisica patita grava sul lavoratore.

Su tale principio, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso di una dipendente che chiedeva di essere risarcita dai suoi superiori per danno da mobbing. Per la Cassazione le risultanze di causa sono state puntualmente analizzate e hanno rivelato una situazione conflittuale tra la ricorrente e il sottotenente, ma non così grave da ricondurre le condotte del collega a un intento persecutorio. Dalle prove è emerso inoltre che il superiore ha agito nell'ambito dei suoi poteri, che in diverse occasioni ha agito anche nei confronti di altri agenti e che le violazioni degli ordini di servizio contestati alla ricorrente erano tutt'altro che pretestuose perché i ritardi, anche se poi giustificati, erano reali.

 

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